
Per prima cosa, vogliamo ribadire che tutte le notizie e le informazioni più aggiornate sulla pandemia da Covid-19 (COronaVIrus Disease 19) si possono trovare sui siti ufficiali dell’OMS, del CDC e, per l’Italia, del Ministero della Salute. Identificato gergalmente con la nomea di coronavirus (che identifica una famiglia di virus tra cui anche quello del raffreddore), è comparso agli onori della cronaca esattamente due anni fa. Era il dicembre 2019 quando un gruppo di pazienti a Wuhan, in Cina, ha iniziato a soffrire di una polmonite sconosciuta successivamente identificata come Covid-19. Da allora, ha rapidamente coperto il globo terracqueo con oltre 227 milioni di infezioni e provocando oltre 5 milioni di morti .
Ma, da allora, i progressi scientifici e medici contro SARS-CoV-2, il virus che causa il Covid-19, si sono fatti strada con un ritmo rapido, se confrontati con le “cure” sviluppate per altre malattie e pandemie del passato ( si prenda l’Aids come riferimento, 40 anni e non ancora una cura definitiva). Entro la fine del primo anno dall’isolamento del virus in Cina, sono emersi vari vaccini affidabili ed efficaci. Si tenga presente che normalmente occorrono dai quattro ai 10 anni per completare il ciclo di definizione di un vaccino. Di recente, Pfizer ha ricevuto l’autorizzazione dalla FDA per la sua pillola antivirale Covid-19: la Paxlovid, che secondo il colosso farmaceutico potrebbe ridurre il rischio di ricovero o morte fino all’89%.

Gli esperti di malattie infettive hanno nel tempo colmato molte delle domande, dei dubbi e dei “segreti” relativamente al Codiv-19, per quanto alla pandemia si sia parallelamente diffusa una infodemia nella quale chiunque si è sentito in dovere di proporre la propria analisi, online, in Tv oppure scritta, creando una confusione totale. In questa confusione è prosperata la misinformazione di una caratteristica fondamentale e pericolosa del Covid-19: le mutazioni, come quelle trovate nelle varianti delta e omicron. Mutazioni che hanno obbligato a rivedere la logica di somministrazione ed efficacia dei vaccini.
Due anni dopo, mentre il mondo sta conoscendo una nuova fase espansiva degli infetti da coronavirus e le più bizzarre teorie si stanno sgretolando di fronte alle morti dei no-vax (dal complotto del nuovo ordine mondiale fino al grafene e ai chip 5G diffusi nel vaccino), la scienza ha l’obbligo di tornare a essere centrale. I dati e gli scienziati hanno il solo diritto di parola, perché sono in prima linea in una lotta contro il tempo per continuare a studiare il Covid-19 e per rispondere ad alcune delle grandi domande che rimangono tutt’ora inevase.
Perché il Covid fa ammalare alcune persone e perché c’è il cosiddetto “long Covid”?
Sappiamo che il virus provoca sintomi che vanno da mal di testa, febbre e disorientamento fino alla nausea e vomito e persino alla perdita del gusto o dell’olfatto. Mentre gli scienziati continuano a creare modelli statistici sommando i casi di chi ha maggiori probabilità di essere colpito, ottenendo così un modello matematico su cui studiare il comportamento del virus, nella realtà dei fatti non hanno ancora risposte definitive sul perché alcuni soffrano di malattie gravi e altri no.

L’età è sicuramente la più grande correlazione tra una malattia grave e la morte dell’individuo. Eppure ciò non spiega le persone morte a età anche giovane, come bambini, che, nella teoria, avrebbero dovuto avere un decorso lieve della malattia.
Gli scienziati stanno anche cercando di comprendere in toto il “long Covid”, ossia una serie di sintomi che possono durare per settimane o addirittura mesi dopo che un paziente è stato infettato per la prima volta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato una definizione che include una varietà di sintomi persistenti: tra cui affaticamento, problemi di respirazione, insonnia, difficoltà di concentrazione, ansia e depressione. L’elenco continua a cambiare. Anche così, la causa di questo effetto collaterale non è chiaramente nota.
“Dopo due anni, non capiamo molto del long Covid e non conosciamo la sua prevalenza con l’omicron dopo la vaccinazione”, ha scritto su Twitter Bob Wachter, presidente del dipartimento di medicina dell’Università della California, a San Francisco. “Rimane un disagio per milioni di persone e una preoccupazione persistente per me mentre penso alla prospettiva di ottenere anche un caso ‘lieve’ di omicron”.
Mentre alcuni sintomi generali, come la perdita dell’olfatto e del gusto, sembrano meno comuni con l’omicron, rimane il fatto che la comunità scientifica ancora non è a conoscenza del fatto se le persone con quella variante soffriranno a lungo di Covid. Semplicemente non c’è stato ancora il tempo per studiarlo: questo tipo di malattie richiedono studi sviluppati su settimane, mesi e anni, oltre al confronto tra più casi e campioni. Il Covid-19, e tutte le sue varianti, rappresentano un insieme di virus “giovani” per i quali manca una sufficiente storicità di studio dei casi. E molte questioni rimangono in sospeso, semplicemente si apprendono e si studiano nel momento in cui accadono.
Quanto durerà l’immunità dai vaccini con le varianti?
I primi vaccini per il Covid-19 sono entrati in vigore tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 progressivamente, seppure con velocità divese, in tutto il mondo. La comunità scientifica identifica i due più efficaci nei vaccini sviluppati da Moderna e Pfizer/BioNTech. Gli unici due ad aver adottato un approccio unico: utilizzare l’RNA messaggero (mRNA) per “insegnare” alle nostre cellule come per produrre una proteina che attiverà una risposta immunitaria al virus.
Mentre i ricercatori studiano i vaccini mRNA “da decenni”, secondo il CDC questo due vaccini per il Covid-19 fanno segnare un primato importante e fondamentale: per la prima volta sono stati resi disponibili al pubblico. Gli scienziati continuano a raccogliere informazioni su quanto sono efficaci e dopo quanto tempo la loro efficacia inizia a diminuire.

Allo stato attuale, la comunità scientifica si è allineata su un fronte comune: la protezione diminuisce entro i sei mesi dalla somministrazione, motivo per cui i booster (cioè la terza dose) sono raccomandati al massimo a sei mesi.
Man mano che emergono nuove varianti, come l’omicron a rapida diffusione, si regola l’adozione del booster, tant’è che nei giorni scorsi si è passati da 6 a 5 e poi a 4 mesi. Questo perché la terza dose deve essere sufficiente ad aumentare la protezione delle prime due dosi di vaccino per un maggiore periodo di tempo, necessario ad allungare lo “scudo” per le persone e per lasciare margine agli scienziati per studiare e capire cosa ci sia ancora da scoprire sul virus.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, i vaccini Pfizer e Moderna sono molto meno efficaci nel prevenire l’infezione da ceppo omicron rispetto alle precedenti varianti Covid-19. Altri vaccini, inclusi quelli di Johnson & Johnson, AstraZeneca e quelli prodotti in Russia e Cina, sono anche meno efficaci prevenire l’infezione da parte della variante omicron, secondo il New York Times.
Tuttavia, secondo la Harvard Medical School, gli individui completamente vaccinati hanno molte meno probabilità di manifestare sintomi gravi, ospedalizzazione e morte, soprattutto se ricevono una vaccinazione di richiamo (il famoso booster). Secondo gli scenari di laboratorio, i vaccini forniscono meno protezione al moltiplicarsi delle varianti. Rimangono però dati di laboratorio, che devono trovare correlazione con la realtà. E, in ogni caso, i vaccini sono l’arma più potente oggi disponibile, compresa la prevenzione (lavarsi le mani, disinfettare ed eseguire tamponi periodici) e l’indossare mascherine. Detto questo, la domanda a cui ancora non si è trovata risposta è come e perché il Covid-19 muta e con quale velocità.
Ci saranno più varianti come delta e omicron?
I virus mutano costantemente. A volte queste mutazioni provocano nuovi ceppi di malattie che emergono rapidamente e altrettanto velocemente scompaiono, secondo il CDC. Altre volte, persistono e creano picchi nel tasso di infezione e malattia. In due anni, il Covid-19 si è trasformato in cinque “varianti di preoccupazione (Voc)” e “varianti di interesse (Voi)”, secondo la terminologia impiegata dall’OMS, in base alla gravità della malattia, all’efficacia delle contromisure mediche e alla capacità del ceppo di diffondersi da persona a persona.
Le varianti alfa, beta e gamma sono state tutte declassate a “varianti monitorate” già lo scorso settembre, con delta e omicron ancora considerate varianti preoccupanti. Progressivamente la omicron si sta affermando come il ceppo dominante in numerose regioni, dall’Europa, Italia inclusa, al Regno Unito fino agli Stati Uniti. In alcuni Paesi questa variante è responsabile di quasi tre quarti delle nuove infezioni. Studi preliminari indicano che la malattia causata da omicron potrebbe essere meno grave di quella provocata dalla variante delta, che aveva il doppio del tasso di ospedalizzazione del ceppo alfa originale, ma per contro è molto più contagiosa.

I funzionari sanitari avvertono che più a lungo dura la pandemia e più a lungo rimangono da vaccinare grandi gruppi di persone, più sarà il tempo offerto al virus di diffondersi e mutare. Sebbene i ricercatori possano mappare e identificare rapidamente le varianti, hanno bisogno di tempo per comprendere quanto sia pericoloso un nuovo ceppo mentre raccolgono dati su ricoveri e decessi.
Non ci sono ancora sufficienti dati per studiare le varianti in anticipo o in tempo reale e trasferire queste inferenze di laboratorio nel mondo reale così da affrontare le pandemie. Il Covid-19 è una sorta di libro, secondo molti scienziati, che va letto pagina per pagina ogni volta che emerge una variante o un ceppo. Il fatto è che le pandemie non andrebbero lette in modo sequenziale come un libro ma affrontate con una serie di dati per supportare e somministrare le cure alle persone. In questo senso, il Covid-19 è così imprevedibile nel suo comportamento da essere un caso unico della storia moderna ma non solo.
Da dove viene il Covid-19?
Gli esperti non sono ancora sicuri di come e da dove sia stato originato il Covid-19. La teoria prevalente è che il virus ha eseguito il temuto salto da animale a umano. I primi sintomi del coronavirus sono stati segnalati a Wuhan tra le persone che lavoravano o vivevano vicino al mercato all’ingrosso di frutti di mare di Huanan, un “mercato umido” all’aperto che vendeva carne fresca, pollame, pesce e prodotti agricoli.
Secondo numerose fonti, tra cui uno studio del giugno 2021 su Scientific Reports, il mercato commerciava anche animali esotici, anche da compagnia, e cibo, tra cui tassi, ricci, zibetti e istrici.

Ci sono altre correnti di pensiero, altrettanto autorevoli, che sostengono senza ombra di dubbio come il SARS-CoV-2 sia emerso in un laboratorio. In questo scenario, si tratterebbe di un virus naturale o progettato dall’uomo che ha infettato un ricercatore, diventato suo malgrado veicolo di diffusione verso altre persone. Sebbene non ci siano prove solide a sostegno della teoria della “fuga” di laboratorio, l’ex presidente Donald Trump e i suoi sostenitori hanno spinto la teoria dell’origine del laboratorio fino al 2020. Ennesimo esempio dell’infodemia e di come le fake news alimentate da personaggi autorevoli, o ritenuti tali, possano dare vita a ondate di pensiero difficilmente arginabili ma potenzialmente dannose per un approccio scientifico alla questione. In questo caso, al Covid-19.
Su un punto i ricercatori sembrano vertere. I cinesi hanno mentito, che ciò sia in meriti all’origine o alla pericolosità o alla gestione iniziale del virus. La Cina, forse colpita sul vivo, non ha mai pubblicato studi e informazioni certe sui fatti di Wuhan. E non sta nemmeno cercando una spiegazione scientifica da fornire per capire il “momento zero” del Covid-19.
Poiché il governo cinese ha chiuso il mercato di Huanan e rimosso tutte le prove non appena i casi di Covid-19 sono stati associati ad esso, è improbabile che i ricercatori trovino mai l’esatta origine, di qualunque origine si tratti (animale, laboratorio, artificiale e così via).
Questo è un altro grande interrogativo che rimane inevaso. E rappresenta una grande differenza, per esempio, con la Sars nel 2003 quando era stato subito abbastanza chiaro che l’origine del virus fosse lo Zibetto delle palme (Civetta) cinese, animale ritenuto prelibato in Cina e dal quale era partita la pandemia in modo rapido verso il resto del mondo. Non a caso, Joe Biden, l’attuale presidente degli Stati Uniti, ha creato una serie di task force centrate nell’intelligence federale così da “raddoppiare gli sforzi” per ottenere risposte sull’origine del virus.
Qualcosa lo sappiamo: andando verso il terzo anno della malattia, ci siamo ritrovati con abitudini (si veda il Green Pass o le mascherine) e medicinali prima d’ora impensabili. E con strumenti antivirali, dalle iniezioni alle pillole, che non ci saremmo mai sognato di assumere prima della diffusione del Covid-19. Alzi la mano chi si sarebbe fatto inoculare un vaccino mRNA sperimentale se non ci fosse stata la pandemia. E per tre volte, incluso il booster. Ma questo è stato anche un bene, perché aprire le porte a questo genere di vaccini e cure, ossia basate sull’RNA messaggero, potrebbe fare evolvere la scienza medica più velocemente. Però questo sappiamo. Su molte altre cose, invece, è buio pesto. Come la notte nel mercato del pesce di Wuhan.